Domenica 11 luglio 2012,un gruppo di volontari è salito fino al “plot del marmor” per riassestare la vecchia “calchera”, termine di gergo dialettale da un po’ di tempo a questa parte tornato in uso; calchera appunto, o, per dirla in italiano, forno per la calce. Anticamente diffuso in Valcamonica, era formato da una struttura di sassi resistenti al calore, solitamente costruito nei pressi di una strada, per facilitare il trasporto delle rocce calcaree e del legname da ardere. Si caricava di legname e poi, per circa 15 giorni il fuoco veniva alimentato al ritmo di 10 Kg ogni 3 minuti, fino ad ottenere temperature elevatissime, di 800-1000 gradi, che cuocevano le rocce. Descrizione sommaria di un processo dietro cui stava un lavoro fisico ed intellettuale non indifferente. Fisico perché serviva manodopera capace per trasportare legname (che occorreva in quantità importanti) e rocce. E non sempre bastavano quelle “in loco”, al “plot del marmor” ve n’erano parecchie di calcaree, ma la parte destra orografica della Valle (soprattutto tra conoide di deieziona tra Losine e Ono San Pietro) era molto più ricca e spesso fin lì si doveva andare per procurarsene. Ono San Pietro, paese ricco di calchere e che, a differenza di qui, dove la producevamo quasi esclusivamente per “uso interno” (cioè solo per noi) ne mercanteggiava in alta valle ma anche più giù, nella bassa. E non c’erano i camion a trasportarla, ci si doveva arrangiare con i carri trainati dai muli (che lavoravano conto proprio e conto terzi, come diremmo oggi). Ma anche lavoro intellettuale, perché tutto era calcolato, dalle dimensioni dei sassi alle aperture, dalle condizioni termiche del forno alla forma stessa, che doveva mantenere la temperatura costante e non disperdere calore. Gradazioni altissime che cuocevano i sassi calcarei per 8-10 giorni e altrettante notti e ne facevano calce “viva”, trasportata in blocchi poi in paese. Dal “plot del marmor” fino al “plà grant” venivano trasportati in sacche (sache) per mezzo di slitte (slese) alla buona, fatte da 4-6 rami di rami di pagher (abete) e maròs (ontano) da qui, mediante slitte trainate da muli si portavano giù. Ogni casa aveva la propria “busa ‘lla calsina – buco per la calcina”. Veniva bagnata con acqua in queste buche, continuamente, la si frollava con il “rabadol” (una specie di badile dalla forma però strana, era grande la metà di un tradizionale badile e all’estremità la pala curvava in dietro) e dopo 15-20 giorni diveniva calce spenta. Bisognava scrollarla continuamente e metter acqua finchè ne richiedeva (cioè fin quando faceva le crepe). Ne derivava una massa pastosa che, mescolata alla sabbia fine, dava origine alla malta. Attorno agli anni ’40 i proprietari della “calchera dol marmor” erano i fratelli Circoncisi (i Cende), Burtulì, Gioanì e Martì (Bortolo, Giovanni e Martino). Ripulita dalle sterpaglie, dalle incrostazioni del tempo, la nostra va ora ripulita dall’idea che fino a pochi anni or sono si aveva delle cose vecchie, impregnate dell’odore della miseria dei tempi passati a combattere con la fame e gli stenti, come se la povertà fosse cosa sporca, di cui vergognarsi.