(…continua)
“…Io ero addetto al rancio, al campo, perciò meno debilitato e, seppur a fatica, riuscii a cavarmela. Attraversammo un abitato, una sera(erano le sei, lo ricordo ancora), dove alle nove arrivarono i militari russi e nessuno più poté passare. Chi era rimasto indietro fu perduto. Arrivammo finalmente, di notte, in uno sperduto paese e all’indomani avvistammo alcuni della nostra compagnia che ci dissero di essere accampati poco lontano. Per otto giorni non mangiammo che pochi fagioli(tre cucchiai ciascuno) scaldati, e neanche troppo; li trovammo nella stalla delle bestie(era evidente che erano stati pestati ma li ripulimmo come meglio potemmo). Eravamo invece forniti di caffè e cognac, ma anche questi dovevano essere centellinati(non sapevamo per quanto avrebbero dovuto bastare). Le sussistenze non c’erano più, poiché eravamo ormai lontani dal fronte; la più vicina era a centinaia di chilometri. Stavamo in una casa fatiscente: un locale col tetto sì, ma bombardato da tutte le parti. Ricordo di aver pianto di paura, in quelle casupole di legno, nelle quali era pericoloso stare più che se fossimo stati all’aperto. Ci capitò di passare la notte sul tetto. Bombardavano ed era tutto un crepitio, in ogni dove. Nella campagna vicina si sentivano scoppi continui, c’erano spostamenti d’aria indescrivibili. Tutto era indescrivibile. Sembrava l’inferno. Cataste di bombe(alte una decina di metri e larghe altrettanti), che nello scoppio surriscaldavano talmente l’aria da far detonare anche i cumuli che non erano stati colpiti. Era tutto uno scoppiettare, un bruciare. Schegge in ogni angolo. Non sapevamo per quale direzione scappare; bombardavano a destra e deflagrava a sinistra. Durò dodici ore. Poi arrivarono i tedeschi, e arginarono lo scoppio. Arrivarono i Tedeschi anche quando, a Karkov, tentavamo di rimpatriare, e la fila dei loro carri armati per due giorni ci sbarrò la strada. Ci erano rimasti alcuni camion, ma non potemmo unirci a loro, che erano un unico, grande automezzo. Erano stati chiamati in Italia, nel sud. Gli americani stavano sbarcando e c’era bisogno di loro. Noi non eravamo nulla. Il nostro armamentario era stato trasferito per via aerea e questo era ciò che contava. Ci raccontavano che avevamo abbattuto aerei, incendiato carri armati, ma in quel deserto gelido non vidi un solo aereo abbattuto, forse qualche carro armato russo abbandonato. Non sapevamo bene perché fossimo finiti in quell’inferno, ma certo non v’era traccia di una vittoria imminente. Ho saputo che Valentino De Marie mi scrisse dal fronte quando avevamo già segnato la ritirata da alcuni mesi. Non lo sapeva e non doveva sapere. Finalmente arrivammo al Brennero. Rimanemmo otto giorni per la “contumacia”(si doveva cioè rimanere in isolamento nel caso si avessero contratto malattie e fummo comunque tutti lavati e rilavati con particolari unguenti). Finché tornammo in Italia, di nuovo a Piacenza, dov’era di stanza il nostro reggimento. Cominciammo a far rientro a casa, dapprima i più lontani, provenienti dal Sud, quindi noi; gli americani avanzavano e, se fosse successo qualcosa, abitando vicino saremmo riusciti a scappare. Feci ritorno a casa nel settembre del 1943. Dicevano che la guerra era finita, c’era stato l’armistizio…invece…”
Continua…
(continua…)