DIALETTO : STIGMA RURALE
Se provassimo a chiedere a degli adolescenti( ma il sondaggio potrebbe essere esteso anche ai giovani, con lo stesso risultato) il significato di qualche obsoleta parola in dialetto locale o, senza andare troppo distanti, chiedessimo loro di contare fino a dieci( naturalmente nello stesso dialetto), rischieremmo di avere come risposta un ibrido tra dialetto ed italiano, un muto silenzio o, peggio, di venire ridicolizzati, tacciati, in nome di una proclamata apertura al moderno, di ristrettezza culturale. Atteggiamento speculare rispetto a quella che è la direzione di marcia delle piccole realtà periferiche, nelle quali la distanza reale e quella immaginaria dai centri urbani coincidono e sono vissute come un handicap.
L’abbandono del linguaggio dialettale non è che l’ultima forma di uno scontro generazionale tradizione/innovazione che è tanto più forte, ed a vantaggio del nuovo, quanto minore è il senso di appartenenza etnica alla realtà sociale di cui siamo parte, una crisi di identità di cui sono vittime le piccole realtà montane e rurali in generale. Colpa anche del vissuto culturale che abbiamo alle spalle: nelle popolazioni di tradizione latina c’è una forte propensione urbano centrica, dettata dal mito dell’urbanesimo, che da sempre ha relegato il mondo rurale in una posizione subalterna, e non solo in senso logistico, mentre la cultura germanica ha da sempre riconosciuto alla ruralità di montagna condizioni favorevoli.
E’ probabilmente questo uno dei motivi per cui popolazioni montane che insistono su aree simili, con gli stessi problemi di adattamento ambientale, rispondono in modo diverso al senso di appartenenza alle proprie radici. Ed ecco che mentre un particolare linguaggio sarebbe sentito come un ulteriore motivo di segregazione, l’utilizzo dello stesso linguaggio è sinonimo di unione, di appartenenza ad una realtà sociale che sola sembra essere degna di considerazione, a fronte di una realtà( quella montana) considerata come parco-giochi ad uso e consumo dei cittadini, la cui reale situazione, alla fine, eccita l’interesse in quanto vendibile.
Una deculturazione nella quale ha avuto un peso determinante la comunicazione di massa, che ha insistito a favore di quello che a tutti è noto come “ villaggio globale”. Un rapporto di odio/ amore vivo da sempre nella società urbana, oltre che nei montanari stessi, ai quali è richiesto, a seconda delle epoche, un adattamento alla realtà in cui vivono spesso troppo camaleontico.
La posizione delle civiltà alpine nell’immaginario urbano è variata coi tempi. Da sempre ed in tutti l’atteggiamento preferenziale è stato caratterizzato da “orofobia”, stereotipo negativo stante per luoghi impervi, impossibili da vivere, un ambiente freddo rispetto alla solarità mediterranea; la montagna come luogo residenziale è cosa recente, fino a poco tempo fa non era che valico da superare in favore di destinazioni più allettanti.
Quando il montanaro è finalmente riuscito ad organizzare l’adattamento materiale( ma non solo) all’ambiente, a trovare giustificazioni a questa vita irta di insidie, il mito dell’uomo selvaggio con valenza negativa, da soccombere a vantaggio di una capacità di controllo sulla natura selvaggia è divenuto stereotipo di valore ed ha portato ad uno scombussolamento, il cui frutto principale è oggi lo scontro accesissimo tra due soggetti (ambientalisti e montanari) che hanno lo stesso scopo, per il raggiungimento del quale attuano però sistemi diversi ed opposti. A fianco di questo non è venuta meno, da parte di quella porzione di popolazione urbana poco orientata alla montagna, l’immagine del montanaro come uomo rozzo, incapace di sentimenti elevati. In questo vortice in continuo movimento da cui le culture periferiche( dal punto di vista dell’ubicazione, naturalmente) si sentono risucchiate, il rigetto delle nuove generazioni nei confronti dello stigma dialettale è, in ultima analisi, l’ennesima sorta di adattamento ad una cultura urbana non peggiore, non migliore, ma quantitativamente privilegiata, che pretende di giudicare senza capire realtà che le sono distanti, sconosciute e diverse. Non avendo( o meglio, non sentendo di avere) radici culturali abbastanza forti da contrapporre alla cultura della massificazione, ci si accontenta- forse senza alternativa- di esserne parte.
Sara
( “…da Cimbergo”, estate 1997)